Un Paese che piange a comando
- The Journalai
- 7 set
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Aggiornamento: 9 set

In Italia si piange a intermittenza, a giorni alterni, e soprattutto secondo la scaletta del palinsesto televisivo alla mano.
La morte di Giorgio Armani – l’uomo che ha vestito il Paese, trasformato Milano in capitale mondiale della moda, dato lavoro a migliaia di persone – è stata liquidata dalla politica e dall’industria italiana con qualche minuto d’agenzia, comunicati copia-incolla, i consueti coccodrilli televisivi e due immagini d’archivio. Nessuna edizione straordinaria, nessun lutto televisivo (figuriamoci nazionale).

Dell’esecutivo, solo il ministro dell’Università, Anna Maria Bernini, ha reso omaggio all’italiano più conosciuto al mondo, recandosi alla camera ardente dove, tra sabato e domenica, sono sfilate ben 16 mila persone. Non si sono visti invece né la presidente del Consiglio Giorgia
Meloni, né il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, nel 2021, gli conferì il titolo di Cavaliere di Gran Croce.


A metterci una pezza, giusto il sindaco Beppe Sala, che ha proposto ufficialmente di inserire il nome di Giorgio Armani nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano, il tempio civile che accoglie i cittadini milanesi illustri.
Ormai siamo abituati a ministri che “preferiscono stare in famiglia” invece di presenziare ad eventi dove sarebbe necessaria la loro presenza (Abodi docet a Wimbledon con Sinner). Ma per quanto assurda possa apparire una giustificazione, risulta incomprensibile l’assenza del ministro del Made In Italy, Adolfo Urso, presente nelle stesse ore al Forum di Cernobbio: per chi non lo sapesse, quindici minuti di elicottero o trenta di macchina da Milano. Stesso luogo, guarda caso, che ha visto in presenza anche il senatore Renzi che, a differenza, il tempo per passare a omaggiare Armani, l’ha trovato.



Spostandoci proprio a Cernobbio, sul Lago, il silenzio si fa ancora più grottesco. Alfredo Ambrosetti, il “signore del Forum” che ha inventato l’appuntamento di Cernobbio – la nostra piccola Davos sul lago di Como – se n’è andato proprio nei giorni della manifestazione. Panel, videomessaggi istituzionali, interventi economico-politici e scientifici, ma nessun minuto di silenzio per chi quell’evento l’aveva fondato. Un timido ricordo è stato approcciato dal ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, che a margine dell’evento di Cernobbio, assediato dalla stampa, ha ricordato “l’amico e conterraneo". Ci si aspettava però qualcosa di più dall’organizzazione e da Valerio De Molli, amministratore delegato del Forum, che non ha ritenuto necessario fermare tutto, nel giorno della sua scomparsa, per rendere omaggio anche solo per un minuto. Silenzio assordante, triste, grottesco.

Alla morte di Pippo Baudo invece il Paese si è fermato. Edizione straordinaria, maratona televisiva, speciali in prima serata, politici pronti a piangere in diretta. Non c’è nulla di male nel ricordare Baudo, icona della tv italiana. Ma viene da chiedersi: davvero il metro della memoria collettiva è solo lo share? Armani e Ambrosetti hanno inciso sulla reputazione del Paese all’estero, plasmato settori strategici, mosso miliardi. Eppure niente. Baudo sì. Armani forse. Ambrosetti chi?
Pippo in fondo è pop, Giorgio è cool e Alfredo è vision. E in un Paese che si abbevera principalmente di mondanità, il primo si esalta, il secondo si celebra e il terzo, che ha provato ad immaginare un futuro e avere il coraggio di progettarlo, a malapena si cita.
La sensazione è che l’Italia – e forse l’Occidente intero – abbiano ormai un lutto a misura di share. Ci si commuove se la memoria garantisce audience, ci si volta dall’altra parte se il ricordo costringe a fare i conti con la realtà.
Armani e Ambrosetti rappresentavano la sostanza: lavoro, industria, diplomazia economica. Pippo Baudo rappresentava il varietà. Eppure il sistema sceglie sempre la via più comoda: piangere davanti alle telecamere, ignorare ciò che costringe a pensare.
Il vero dramma non è la morte in sé, ma l’incapacità di riconoscere il valore delle persone e degli eventi che hanno realmente inciso sulla nostra vita collettiva. Un’Italia che si ferma solo davanti al telecomando, e mai davanti alla storia.
di Edoardo Bianchi




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